Stress da lavoro, il datore non è responsabile se l’infermità dipende da una peculiare reazione soggettiva del lavoratore

Il lavoro è lo strumento basilare e fondamentale di partecipazione al progresso e alla tenuta della società e, in quanto tale, conferisce dignità al cittadino. Pertanto, una grossa fetta della nostra quotidianità viene generalmente occupata dal lavoro; ciò fa sì che, inevitabilmente, il proprio benessere psico-fisico dipenda, in gran parte, dalla qualità delle ore trascorse nello svolgimento delle mansioni lavorative.

Elementi come il difficoltoso attuarsi di relazioni interpersonali, un orario di lavoro particolarmente usurante o continue pressioni commerciali possono mandare in cortocircuito l’ordinario adempimento della prestazione lavorativa: mentre in passato l’occhio della legge e delle corti, in materia di sicurezza sul posto di lavoro, guardava sostanzialmente alla prevenzione degli infortuni, recentemente l’attenzione nei confronti delle patologie psichiche, la cui insorgenza è causata da circostanze lavorative stressogene, si è sensibilmente accresciuta.

Nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato, è compito del datore di lavoro vigilare sulla conservazione della serenità e della salubrità del contesto lavorativo, sia attraverso l’adozione di misure di sicurezza contro gli infortuni, sia evitando, più in generale, che l’ambiente produca conseguenze fisicamente e psicologicamente impattanti sul lavoratore; eventuali inadempimenti, in tal senso, sono riconducibili alla responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Perché il sopravvenire di malessere psichico nel lavoratore possa tradursi in responsabilità dell’imprenditore, è necessario, come insegna una consolidata giurisprudenza, che il lavoratore fornisca prova del danno, della nocività dell’ambiente di lavoro e del nesso di causalità, essendo onere dell’imprenditore dimostrare di aver adempiuto alle obbligazioni scaturenti dall’art. 2087 c.c..

Tuttavia, la giurisprudenza e, da ultimo, l’ordinanza analizzata in questa sede, esclude la responsabilità del datore qualora la sintomatologia ansioso-depressiva o da burn-out dipenda da una particolare attitudine soggettiva del lavoratore.

Il caso sul quale si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con l’ordinanza n. 16580 del 23 maggio 2022, riguardava una docente ricorrente innanzi al Tribunale di Genova lamentando di essere stata sottoposta a mobbing; tale circostanza, a suo dire, aveva generato una sindrome depressiva.

La Suprema Corte, adita a seguito della soccombenza della ricorrente sia in primo che in secondo grado, illustra anzitutto come il mobbing sia configurabile qualora sussistano un elemento oggettivo – plurime condotte pregiudizievoli nei confronti del lavoratore – e un elemento soggettivo – l’intento persecutorio nei confronti della vittima -, precisando altresì che non è necessario che i comportamenti del datore siano intrinsecamente illegittimi, in quanto il disegno persecutorio rende illecite anche condotte astrattamente legittime.

Ulteriore fattispecie contemplata dalla giurisprudenza è quella dello straining, configurabile nel momento in cui sia ravvisabile una sola azione vessatoria o qualora le azioni siano limitate nel numero.

Ma, al di là della denominazione del fenomeno – continua la Corte – è sufficiente, affinché vi sia responsabilità ex art. 2087 c.c., che il datore di lavoro si renda colpevole per non aver ovviato alle problematiche afferenti all’ambiente di lavoro, procurando, in tal modo, un danno al lavoratore.

Nel caso di specie, il requisito da ultimo citato era da ritenersi assente: la Corte d’Appello, a detta del giudice di legittimità, aveva ben giudicato, considerando che l’operato del datore di lavoro era da ritenersi motivato e giustificato; la reazione patologica della ricorrente era da ricondurre, nelle cause, a circostanze e modalità organizzative che, in relazione a un lavoro di quel tipo, non si dimostravano eccezionali né fuori dall’ordinario; a ciò si aggiungeva una peculiare reazione soggettiva e una particolare sensibilità della ricorrente. In definitiva, il datore non avrebbe potuto essere giudicato responsabile poiché solo una totale cessazione dell’attività avrebbe fatto sì che non insorgesse il danno. L’ordinanza in analisi sottolinea dunque come, pur a fronte del particolare quadro patologico affliggente una delle parti, sia necessario conservare un equilibrio valutativo al fine di non sacrificare la posizione della controparte. Le patologie di cui trattasi presentano indubbiamente elementi di complessità, in quanto la loro eziologia richiede una profonda e attenta analisi; il lavoro dei consulenti tecnici si dimostra, in questo campo, ancora più importante e delicato.

Foto di SHVETS production