Obbligo di repêchage: esclusivamente a carico del datore di lavoro

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Con una recente ordinanza (n. 30143/2023 depositata il 30 ottobre 2023) la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul c.d. obbligo di repêchage previsto per le aziende in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, stabilendo che è onere del datore di lavoro quello di provare l’impossibilità di assolvere l’obbligo di repêchage in merito all’inesistenza di posizioni lavorative, anche riconducibili a mansioni inferiori, cui applicare utilmente il lavoratore e, dunque, l’inevitabilità del licenziamento conseguente alla soppressione della posizione lavorativa specifica.

Giova qui ricordare che l’espressione repêchage (ripescaggio) si riferisce all’obbligo, per il datore di lavoro, di tentare la ricollocazione del lavoratore in altra posizione o ruolo prima di licenziarlo per giustificato motivo oggettivo.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto dalla lavoratrice avverso la sentenza che aveva confermato il rigetto della sua domanda di impugnazione del licenziamento intimatole per soppressione del posto di lavoro presso la società ove prestava servizio.

Tra le motivazioni dei giudici della Corte d’Appello, vi era “l’opportunità/necessità” che la lavoratrice ricorrente “collaborasse” nell’accertamento di un possibile repêchage mediante allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali la stessa poteva essere utilmente collocata.

Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione con due motivi.

Con il primo motivo, è stato contestato il contenuto della lettera inviata alla dipendente dalla società, in quanto tale comunicazione non rispettava l’onere della specifica motivazione della L. n. 604 del 1966. All’interno di tale lettera, infatti, si sosteneva che il licenziamento era “motivato dalla soppressione del posto di lavoro e dal venir meno delle attività e delle mansioni in cui la dipendente era addetta. Le attività assegnate in passato sono già state ridistribuite tra le altre risorse attualmente in forza, non è stato possibile reperire una posizione può assegnare alla lavoratrice per evitare licenziamento e non sono possibili misure di ricollocazione”.

Con il secondo motivo è stato contestato il mancato assolvimento dell’onere di provare l’impossibilità del repêchage, consistente in una «effettiva verifica ed offerta, da parte del datore di lavoro, di un reimpiego in posizioni lavorative di livello inferiore, a nulla rilevando l’offerta di un trasferimento che precedeva di circa un anno l’avvio della procedura di recesso».

La Suprema Corte ha rilevato, infatti, che i giudici di merito hanno violato i principi in tema di repêchage, (Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882; Cass. 2 maggio 2018, n. 10435), avendo posto a carico del lavoratore un onere che non gli appartiene e non avendo neppure escluso la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

Alla luce di tali motivazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il primo motivo di ricorso e ha accolto il secondo, attribuendo al datore di lavoro l’onere di provare l’impossibilità di assolvere l’obbligo di repêchage.

Foto di Johan Tufvesson